Atti del Convegno del Panathlon – Club di Pavia
Tre spogliatoi basteranno?
Di Cesare Dacarro
Atti del Convegno del Panathlon – Club di Pavia
I transgender nello sport: tra mito e realtà
Chi siamo? Chi sono i transgender? Quale sport per il futuro? La moltiplicazione degli spogliatoi degli impianti sportivi è una esigenza da considerare?
I relatori del convegno organizzato dal Panathlon di Pavia sono stati chiari e, nelle loro comunicazioni, hanno esposto, scientificamente, argomentazioni utili per collocare il fenomeno del transgenderismo nell’ambito degli accadimenti che caratterizzano la nostra società e che contribuiscono ad arricchire la nostra cultura, anche quella dello sport. Non mi avventurerò nel commento di quanto affermato dagli specialisti, ma cercherò di limitarmi a valutazioni tipiche dell’uomo della strada o a quelle di chi si occupa dello sport realmente ed osserva il fenomeno dalla prospettiva di chi si assume la responsabilità di essere un dirigente sportivo nell’ambito dilettantistico o, se vogliamo, anche di quello professionistico. Partirò dall’assunto, spesso evocato, che nello sport ci deve essere posto per tutti; per questo valuterò il tema in discussione attraverso una lente a bassa risoluzione, incapace di mettere in evidenza l’eccessiva frammentazione delle categorie di sportivi, che ci apparirà come una dissoluzione delle stesse. Lo sport è attualmente organizzato secondo il binarismo di genere, in funzione di una suddivisione del sesso in maschile e femminile, una classificazione basata quindi sull’idea che esistano solo due generi, uomo e donna. Lo sport, fino ad ora, ha trascurato la possibilità di suddividere la proprie proposte in funzione di una pluralità di identità e non solo su quella binaria. Possiamo, a questo punto, porci la seguente domanda. Ma allora chi siamo?
Recentemente nel Dizionario Inglese di Oxford, pubblicato dalla Oxford University Press, è stato inserito un neologismo “cisgender” che indica “un individuo il cui senso di identità personale corrisponde al sesso e al genere attribuitogli/le alla nascita” (“designating a person whose sense of personal identity corresponds to the sex and gender assigned to him or her at birth”). Invece, “transgender”, è la persona che non si sente a proprio agio con il sesso e il genere che gli sono stati attribuiti alla nascita. Questa classificazione supera quella per effetto della quale si definisce un individuo “normale” o “diverso”.
A cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, i cinesi hanno sequenziato l’intero genoma di un milione di uomini, un milione di animali e un milione di piante ed attualmente continuano a sequenziare qualsiasi genoma. Il sequenziamento del DNA ha certamente consentito di identificare geni importanti presenti nella cellula umana ma non ha ancora sconvolto la nostra vita. Il numero di geni umani presenti in ogni cellula era inizialmente preventivato nella misura di circa 100.000, ma è stato progressivamente ridotto a circa 20.000; attualmente si calcola che il genoma codificante per proteine nell’uomo comprenda meno dell’1,5% del genoma stesso. Il genoma umano contiene ampie regioni di DNA la cui funzione, se esiste, rimane ignota. Questo DNA fu definito, inizialmente, spazzatura e comprende di fatto la maggior parte, intorno al 97%, del genoma umano. Il DNA che costituisce il nostro genoma è quindi in massima parte di difficile caratterizzazione in relazione alla sua provenienza e funzione.
L’evoluzione umana è regolata dalla ricombinazione genetica che avviene per effetto del rimescolamento del genoma che si verifica quando gli ovuli e gli spermatozoi fondono il loro patrimonio genetico. La fecondazione avviene quando spermatozoo e uovo si fondono per formare un nuovo organismo geneticamente differente. Nell’evoluzione del genoma svolgono un ruolo anche le mutazioni che vengono provocate dalla semplice modificazione della sequenza di basi del DNA. Si comprende come identità sessuale e sesso somatico non siano sempre una caratteristica immutabile biologicamente determinata a causa delle complesse situazioni che si generano dopo la fecondazione. L’identità sessuale è anche il frutto di una serie di variabili pre e post natali. Per rispondere alla domanda “chi siamo?” devo dire che siamo tutti transessuali. Com’è noto, uomini e donne nascono da ovuli fertili monosessuati che diventano successivamente embrioni. Le donne hanno 44 cromosomi normali e due cromosomi X; gli uomini hanno 44 cromosomi normali, un cromosoma X e un cromosoma Y. Nell’utero materno, derivati dalla stessa struttura embrionale, cominciano a svilupparsi pene o clitoride in risposta alle sostanze chimiche, gli ormoni, che circolano nel sangue. La determinazione del sesso non avviene sempre in questo modo e non dipende necessariamente dalla presenza di determinati cromosomi. L’antropologa Anne Bolin sostiene che il genere sessuale non viene attribuito dalla presenza dei genitali, ma viene “conseguito” anche socialmente. Se si abbandona la convinzione che l’attribuzione del genere sessuale sia da attribuire con criteri antropomorfi, è possibile risalire ai nostri più lontani progenitori: i batteri. Questi sono le prime cellule comparse sulla terra e la loro unione ha dato vita alla cellula eucariota che ha generato tutti gli esseri viventi, tranne i batteri, ovviamente, che mantengono tuttora la loro natura di cellula procariota. I batteri non hanno sesso e si riproducono per scissione binaria duplicando le cellule e trasferendo il materiale genetico orizzontalmente e non verticalmente, dai genitori ai figli, come avviene negli animali. Dobbiamo a questo punto ammettere che la convulsa attività dell’evoluzione ha portato gli animali a riprodursi sessualmente, con scarsa efficienza, imboccando un vicolo cieco evoluzionistico. I batteri invece moltiplicano il loro genoma con grande efficienza, indipendentemente dalla necessità di riprodurre la cellula. Secondo Aristotele la presenza di due tipi di embrioni maschili e femminili rappresenta due versioni di un disegno unico. Ma è anche vero che l’evoluzione non ha abbandonato i mattoni iniziali che hanno generato tutti gli esseri viventi. I batteri esistono ancora e si moltiplicano abbondantemente, conservando un pool immenso di geni che si scambiano tra di loro secondo strategie differenti, con lo scopo di conservare e condividere il DNA. Il dimorfismo sessuale è la regola per il mondo animale, ma non esiste nel mondo microbico dove l’assenza del sesso e di una riproduzione basata su meccanismi non sessuali non appare svantaggiosa nell’economia generale della sopravvivenza delle specie.
Cosa c’entrano i batteri, i transgender, i maschi e le femmine con lo sport? Sono stato invitato a partecipare alla tavola rotonda, che si è tenuta a conclusione del convegno organizzato dal Panathlon, in qualità di presidente del Centro Universitario Sportivo di Pavia (CUS Pavia) e in questo ruolo mi devo calare anche se mi sono permesso di entrare in qualche considerazione sulla biologia del transgenderismo limitandomi a semplici commenti, come già precedentemente affermato. Decenni di permanenza ai vertici del centro sportivo mi hanno consentito di osservare un numero elevatissimo di giovani nel corso delle loro attività fisiche svolte ai vari livelli di intensità e di impegno psicofisico. E’ compito frequente, sebbene non auspicato, essere come presidente, il collettore di richieste, lamentele, segnalazioni condivise o strettamente private: l’associazione sportiva è una comunità dove deve prevalere l’interesse del gruppo ottenuto spesso mettendo in campo la tolleranza e le politiche di integrazione ed inclusione. Devo dire che, in tanti anni, mai mi è stato sottoposto il problema di un transgender interessato alla pratica di uno sport. Il tema “transgender e sport” appare per me irrilevante, nell’economia generale dell’associazione sportiva CUS. I dati, presenti in letteratura, confermano che il numero di transgender considerati atleti d’elite presenti nella popolazione non smentisce la mia semplicistica affermazione che viene confermata dagli studi di alcuni Autori i quali hanno stimato dell’ordine dello 0,2 – 0,5 % la prevalenza di atleti di vertice nell’ambito dell’intera popolazione. Al contrario sono certo che abbiano fatto parte delle squadre del CUS soggetti omosessuali senza che la loro presenza abbia creato qualunque tipo di problema; ritengo quindi che un’associazione polisportiva evoluta e pluridisciplinare possa offrire opportunità nell’ambito dello sport per individui LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender). E’ evidente che è difficile individuare con certezza i soggetti transgender che praticano uno sport, soprattutto quelli che si dedicano ad attività sportive ricreative ed amatoriali poiché le loro prestazioni non sono d’eccellenza come quelle degli atleti d’elite nei quali la condizione di transessualità determina chiaramente il conseguimento di risultati importanti ed evidenti soprattutto derivanti dalla condizione legata alla transizione Male-to-Female. Il transessuale femmina è certamente favorito nell’ottenimento di risultati d’eccellenza, contrariamente al trans maschio; è anche vero che per ottenere risultati di valore assoluto il trans femmina dovrà possedere doti fisiche rilevanti di per sé, come quelle presenti in un campione, derivanti dalle sue naturali caratteristiche non provocate da una transizione artificiale Male-to-Female. Sarebbe adesso troppo facile auspicare l’applicazione di regolamenti per individuare le condizioni in grado di garantire uno svolgimento delle gare equo e uguale per tutti. La tendenza dello sport attuale è quella di moltiplicare le categorie immaginando di coagulare atleti con caratteristiche simili in funzione del sesso, dell’età, del peso, della tipologia di handicap di cui l’atleta è eventualmente portatore ed altro ancora. Ma la perfezione nell’individuare i limiti di questi contenitori non è raggiungibile: non è certo equo far gareggiare, nell’atletica leggera, nel salto in alto, un atleta alto due metri con quello alto 1,60, ma si può fare; nessun lanciatore di peso di 65 kg gareggerà mai contro un omone di 120 kg, ma nessuno lo vieta. Si troveranno categorie adeguate anche per i trans, tuttavia non è certo questa mancanza che vieta di praticare uno sport anche a livello amatoriale: certo, come da me affermato precedentemente, i transessuali che praticano uno sport sono veramente pochi, ma è evidente che questa mia posizione è stata anche provocatoria per stimolare la discussione. Per esempio, un rappresentante dell’ARCIGay mi ha chiesto se negli impianti in uso al CUS c’è il terzo spogliatoio. Non mi sento di considerare, per principio, irrealizzabile un terzo spogliatoio, ma ricordo che fino a qualche decennio orsono, in alcuni casi, anche il secondo spogliatoio risultava essere assolutamente inutile: mi riferisco all’impianto di canoa e canottaggio dove l’unico spogliatoio era riservato ai maschi poiché la canoa e il canottaggio femminile non erano discipline riconosciute. Allo stato attuale, la presenza di un terzo spogliatoio potrebbe essere un elemento di ulteriore disagio nel transgengder, soprattutto se di giovane età.
Non da ultimo si pone il problema della lotta al doping anche nel caso dei transgender. E’ noto che la presenza in un atleta di una sostanza proibita, dei suoi metaboliti e dei suoi “marker”, anche quando questi sono presenti in seguito ad una assunzione involontaria, viene considerata doping ed attribuibile alla responsabilità dello sportivo. Nei trans, l’individuo può essere fenotipicamente femmina ma geneticamente maschio con una concentrazione di ormoni androgeni maschile che agiscono a livello muscolare. In questi casi si tratta di “donne” mascolinizzate, ossia con massa muscolare ipertrofica. In questi casi è il testosterone che viene considerato sostanza dopante – una sorta di veleno maschilista-, anche quando non è di origine esogena. Il doping viene quindi autoprodotto o somministrato e la concentrazione raggiunta viene considerata dopante. Gli atleti trans Male-to-Female devono dimostrare un livello di testosterone inferiore a 10 nanomoli/litro per almeno un anno prima della competizione. Nel caso di Caster Semenya sembra sia stato stabilito che l’atleta non è un uomo ma bensì una donna affetta da iperandrogenismo, una condizione nella quale viene prodotta una eccessiva quantità di ormoni androgeni, come il testosterone, rispetto alla media. Nei controlli antidoping, si tratta quindi di verificare la presenza o meno di concentrazioni dell’ormone considerate eccessive.
Per concludere posso affermare che la definizione di nuove categorie nello sport, dell’invenzione di nuove discipline sportive ed altro continueranno fino a rendere lo sport sempre più racchiuso in un ambito professionistico e spettacolare. Nello sport dilettantistico e ricreativo le classificazioni e le categorie dovrebbero essere abolite lasciando spazio alla massima libertà nello svolgimento dell’evento sportivo in assenza di vincoli, e nella massima eterogeneità di partecipanti. Esiste inoltre, dietro l’angolo, una terza possibilità, una via d’uscita dove tutti, veramente tutti, possono cimentarsi senza dover produrre certificati o altro: sono gli sport elettronici, gli esport.
Photograph by Mark Shearman